VAL DI FUMO

 

Tiberio Quecchia è stato senza ombra di dubbio tra le più rappresentative figure dell’alpinismo moderno bresciano. Instancabile apritore di difficili ed eleganti itinerari in tutta la vicina area alpina, nella seconda metà degli anni novanta aveva fatto della più grandiosa valle adamellina una delle sue aree preferite intuendone le enormi potenzialità microesplorative sulle tracce di un altro grande di casa; quel Severangelo Battaini che per primo, dopo decenni di totale o quasi oblio, aveva ricominciato ad aprire itinerari in Val di Fumo. Il limite di questi itinerari, che è sicuramente più soggettivo che oggettivo, ma che da soggettivo diviene inevitabilmente anche oggettivo, sta nella severità che da sempre ha caratterizzato l’agire alpinistico quecchiano: utilizzo di mezzi artificiali minimi, drastica limitazione del ricorso allo spit, linee di concezione e difficoltà moderna affrontate con attrezzatura tradizionale o artigianale (i suoi spit da 6 mm o 4 mm sono una testimonianza della sua etica ancora prima che della sua passione anche se ora rischiano di far rizzare i capelli sotto il casco a qualche ripetitore!). Il progressivo progredire, o il regredire a seconda dei punti di vista, di una logica più sportiva anche su itinerari di più lunghezze tipica del primo decennio del nuovo millennio, dove la sportività trascende la sicurezza ed in linea diretta e forzatamente consequenziale l’attrezzatura, ha portato inevitabilmente al progressivo abbandono degli itinerari tracciati, soprattutto in Adamello, da parte di Tiberio e dei fedelissimi del suo entourage tra i quali spiccarono Franco Colazzu e Dario Ballerini. E questo, al di là delle fazioni, dei giudizi sull’evoluzione o involuzione dell’alpinismo (o bisognerebbe dire dell’arrampicata??) o sull’utilizzo dello spit, è sinceramente un peccato. Per levare il campo a dubbi, lo scrivente appartiene a coloro che reputano il diffondersi dello spit una naturale evoluzione dell’alpinismo o di quello che ne resta. Alla base di tutto si ritiene vi debba essere il rispetto dell’altro o dell’opinione o dell’agire di cui è al contempo testimone ed espressione; il rispetto inteso come naturale contralto della più grande attrattiva degli spazi alpini; quella libertà o quel sentore di libertà che rendono il vivere e frequentare la montagna talvolta una vera ragione di vita, tal altra una passione bruciante, un passatempo irrinunciabile in altri casi ancora. Ma la libertà personale finisce là dove finisce il rispetto della libertà dell’altro, diceva Bertrand Russel. E questa è una legge o meglio un assioma che ogni amante della montagna dovrebbe avere inciso nel suo dna di frequentatore e fruitore dei luoghi di libertà. Così come è assurdo richiodare integralmente vie classiche a spit, vie percorse da decenni così come sono e che costituiscono ormai monumenti all’audacia umana e simboli di una ben identificata età dell’oro dell’alpinismo propriamente classico, così è assurdo vietare l’utilizzo degli spit in certe aree o pareti. Questo perché qualcuno si è auto assurto a difensore della verginità dei luoghi (ma chi o cosa lo ha incaricato di tale oneroso compito od investito di tale potere??) e a conseguente strumento punitivo degli incauti che intacchino o tentino di intaccare la sua sfera di potere o virginea influenza; magari a ben assestati colpi di martello; quasi che ogni spit spiattellato sia un colpo alla modernità falsamente progressista, all’inquinamento, al buco nell’ozono, allo scioglimento delle calotte artiche o semplicemente i tintinnii del metallo piegato valgano a riempire l’unico buco realmente esistente; quello che alberga ed impera nella sua testa! Sia ben chiaro che l’uscire da un equilibrismo di stampo veterodoroteo non significa per questo non condannare un utilizzo indiscriminato degli spit o dei fix o dei resinati o di ogni altra forma di protezione che passi attraverso la perforazione. Semplicemente è esprimere in modo chiaro e netto un’opinione. Quella di ritenere più consona l’apertura di una via ben protetta rispetto ad una via dove le possibilità di protezione sono scarse, nulle o inesistenti. Quello di attrezzare soste a prova di bomba piuttosto che soste destinate a saltare alla prima vera sollecitazione. Quello di privilegiare aree anche parecchio distanti dai fondovalle o da punti di appoggio, ma su pareti dove la possibilità di incrociare itinerari classici preesistenti è praticamente nulla o ridotta al lumicino; questo in netta alternativa all’intasare con linee sempre più ricercate aree già ampiamente sfruttate finendo con l’ottenere vie molto chiodate, generalmente illogiche, naturalmente tendenti a disturbare (magari incrociandoli più volte!!) itinerari classici ben protetti a chiodi o comunque con più che dignitose possibilità di integrazione. Si ritiene conseguentemente che il destinare l’opera di Tiberio Quecchia sulle ariose placche della Val di Fumo al quasi totale oblio sia un peccato madornale. Sarebbe bello poter ancora sentire la sua opinione che servirebbe, visto l’equilibrata compostezza che caratterizzava l’uomo ancor prima che l’alpinista, a dipanare dubbi o liberare il campo da false certezze. Perché i suoi amici o coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo o meglio ancora di arrampicargli a fianco, si dividerebbero sicuramente fra i sostenitori di un totale intonso mantenimento dello status quo della sua opera, irrimediabilmente destinato ad un progressivo abbandono, o coloro che vorrebbero una riconsiderazione della medesima, magari sostituendo i vetusti rugginosi spit da 6 mm con più moderni attrezzi o magari aggiungendo quella manciata di spit tali da rendere una via non necessariamente destinata a dei morituri te salutant.

 

Caratteristiche

 

L’immensa valle da cui nasce il fiume Chiese è di fatto rimasta, con l’eccezione della breve ma proficua parentesi quecchiana, un terreno praticamente dimenticato dall’alpinismo moderno. A differenza della Val Salarno o della Valle Adamè, qui è mancato totalmente il periodo della prima modernità arrampicatoria; quello delle scarpette Mariacher o dei nuts; quello delle audaci realizzazioni in cui eccelsero fior di personaggi a nome Preti, Roversi, Zizioli o Fieschi. Lo stesso Damioli, a cui nessuno può togliere la nomination e l’oscar di più prolifico apritore di nuove vie in Adamello degli anni 90, qui ha bazzicato un gran poco. Vero è che le strutture più belle sono a non poca distanza dal fondovalle e che i coster, con l’importante e ben localizzata eccezione della grandiosa struttura delle Placche del Rifugio localizzate immediatamente alle spalle del medesimo, si mostrano molto meno articolati ed interessanti di altre valli adamelline. Considerando che proprio queste strutture di media valle sono state il terreno privilegiato di nuove realizzazioni negli ultimi anni sia per un discorso di accessibilità che di qualità della roccia, ne deriva una plausibile giustificazione allo scarso appeal della Val di Fumo. La considerazione, seppur fondata, perde di spessore argomentativo se si citano le belle vie aperte su cime con pareti tra le più significative di tutto il massiccio, incominciando con il maestoso Carè Alto, passando per il grandioso complesso del Monte Folletto e delle sue magnifiche Gobbe e finendo con la solitaria Cima di Buciaga. Dunque limitare la propria attenzione solo alle grandi placche alle spalle del rifugio è alquanto controproducente. In questa valle vi sono fior di ascensioni; alcune sono da annoverare tra le più alpinisticamente impegnative che il gruppo possa offrire alla data della presente il che dice già molto. Altre, seppur meritevoli di una rivisitazione, come evidenziato in ambito introduttivo, hanno la potenzialità, grazie soprattutto al favorevolissimo approccio, di diventare delle classiche annoverabili tra le più remunerative nel loro genere che il gruppo possa offrire.

 

Accesso

 

Punti di Appoggio

 

Rifugio Val di Fumo raggiungibile per comodo sentiero in c. 1.30 ore dal parcheggio presso la diga del Lago di Malga Bissina. Moderna ed accogliente struttura di proprietà della S.A.T.. Ottimo servizio e cucina tipica di prim'ordine.

 

La Val di Fumo è raggiungibile dalla Val Rendena percorrendo integralmente la Val Daone fino al Lago di Malga Bissina nei pressi del quale si parcheggia (a pagamento nei mesi estivi dopo le ore 08:00). Costeggiando per comoda carrareccia il grande bacino artificiale del Lago di Malga Bissina, se ne raggiunge il termine passando il fiume Chiese che qui si mostra come maestoso torrente. Sempre per comodo sentiero, lungo il piatto e panoramico fondovalle, si raggiunge la grande costruzione del rifugio Val di Fumo.

 ( DESCRIZIONE CONCESSA DA AMADIO PAOLO www.adamellothehumantouch.it )